1.6 La Poesia

La forma poetica fu impiegata per gli scritti politici e filosofici. Fra i primi esempi di poesia c’è quella di Solone che espresse le sue idee politiche e morali in distici elegiaci. Alla fine del VI secolo ci fu Senofane che lasciò esule l’Asia Minore e andò a vivere nella Grecia occidentale; mezzo secolo più tardi, Empedocle di Agrigento e Parmenide di Elea, importanti filosofi presocratici, scrissero solo in forma poetica. Erodono è il primo prosatore greco di cui si può affermare che fu uno stilista grande ed elegante. Anche in seguito non ve ne furono mai in gran numero, a parte Platone e gli oratori, benché venissero scritte in prosa opere letterarie in grande quantità. La poesia conservò il predominio fino ai secoli della decadenza della civiltà greca sotto la dominazione romana, mentre l’ultima fioritura si ebbe con alcuni prosatori come Plutarco e Luciano, nati rispettivamente nel 46 e nel 120 d.C.

La poesia greca subì nel tempo mutamenti che riflettevano la storia della stessa società greca. Se l’inizio del periodo arcaico era stato contrassegnato dal passaggio dall’epica alla poesia personale di un poeta come Archiloco, la transizione al periodo classico vide un altro mutamento di rilievo. In qualche misura la poesia è sempre l’espressione personale dei sentimenti di ciascun poeta, delle sue idee e dei suoi giudizi (sebbene la poesia eroica, culminante nell’Iliade e nell’Odissea avesse avuto un forte carattere impersonale). Nella Grecia classica i temi e le occasioni della poesia evolvono da quelli dell’individuo (per esempio i versi di Archiloco, le liriche amorose di Saffo, i canti conviviali di Anacreote) a quelli della comunità. Si può dunque dire che la poesia classica abbandonò il canto delle emozioni puramente personali per i temi sociali, religiosi, e per i grandi motivi morali.

Questo mutamento emerge in tre figure che conclusero il periodo della poesia lirica: Simonie di Ceo, suo nipote Bacchilide, e il poeta beota Pindaro, probabilmente il più grande, che visse tra il 518 e il 438 circa. Essi furono tutti molto fecondi, e le loro opere comprendono una grande varietà di generi, come gli inni, i peani (di solito scritti per celebrare una vittoria militare), i canti funebri, gli epigrammi, gli epinici in onore di un vincitore nei giochi. E’ da osservare che tutta questa produzione poetica era scritta per occasioni specifiche, di solito su commissione di qualche patrono. Ogni poesia era collegata a un luogo particolare solo a causa dell’occasione o della persona che l’aveva ispirata, ma non era mai regionale o nazionale, come è sempre stata la massima parte della poesia moderna. Il peana, per esempio, era in origine un inno ad Apollo e non perse mai questa sua peculiarità anche quando diventò un inno alla vittoria e alla pace. L’epinicio, il tipo di ode meglio noto perché sono giunti fino a noi tutti gli epinici di Pindaro, prendeva le mosse da un avvenimento religioso, i giochi celebrati in occasione di una festività, e celebrava il vincitore con inserzioni di precetti morali, massime ed anche qualche commento politico e sociale. In apparenza il soggetto poteva essere un atleta mentre in realtà era la comunità con i suoi dei.

Benchè le odi di Pindaro possano essere ancora definite liriche, in senso formale molto ristretto, anche questi brevi brani rivelano che la maggiore affinità psicologica e intellettuale è con il contemporaneo ateniese Eschilo e con la diversissima forma d’arte da lui creata: la tragedia.