1.7 La Tragedia

Fu Atene, la città-stato democratica per eccellenza, che creò e patrocinò la tragedia, una forma d’arte che ricevette subito il posto d’onore, dopo Omero, su ogni altra forma poetica, non solo tra gli Ateniesi ma fra i Greci in generale. Plutarco racconta nella Vita di Nicia che alcuni degli Ateniesi catturati a Siracusa nel 413 ebbero salva la vita grazie alla loro capacità di recitare Euripide a memoria. E ciò attesta ottimamente la dignità che la tragedia aveva raggiunto. Le sue origini sono però oscure. La poesia lirica trova la sua origine nel fatto che gli uomini hanno sempre impiegato il canto in occasione di solennità e soprattutto nelle loro relazioni con gli dei. La poesia lirica, come indica il nome, era una poesia che veniva accompagnata dal suono della lira (e successivamente anche dal flauto). Spesso il canto, specie se era corale, accompagnava una danza o un mimo e qualche volta i danzatori portavano una maschera per rappresentare, per esempio, i satiri sempre associati con Dioniso. E non deve sorprendere che la divinità centrale fosse Dioniso, in questo tentativo compiuto nella Grecia del VI secolo di mettere la poesia lirica, in una relazione organica con antichi riti. Come Demetra, la dea della fertilità, Dioniso occupava un posto speciale nel Pantheon degli dei: praticamente ignorato da Omero, e non incluso tra gli dei olimpici, sebbene fosse figlio di Zeus, Dioniso raggiunse una posizione eminente nella religione ufficiale dello Stato, pur restando un dio prevalentemente popolare, il dio del vino e della baldoria, dell’estasi, della frenesia e dei riti orgiastici.

La combinazione tra poesia lirica e rituale dionisiaco costituì la preistoria della tragedia. Quel che ne derivò, infatti, non era né una danza rituale, né una celebrazione corale del dio, né una combinazione delle due cose, ma qualche cosa di nuovo e di diverso, cioè il teatro. A questo punto, dunque, i Greci, o meglio gli Ateniesi, inventarono l’idea del teatro, così come inventarono tante altre istituzioni sociali e culturali che poi restarono come parte ovvia del patrimonio dell’Occidente.

L’idea del teatro si traduceva in drammi e attori mediante i quali individui privati, non dotati di alcuna autorità sacerdotale o di altro genere, esaminavano pubblicamente il destino dell’uomo, e lo commentavano, non limitandosi ad intonare inni agli dei o ad inscenare un dramma rituale, come nella rievocazione del mito di Demetra che sembra fosse il momento culminante dei misteri eleusini, ma rappresentando un’azione poetica che, nonostante i molti elementi legati alla tradizione, era una creazione del drammaturgo. I greci accostavano la tragedia all’epica poiché questa nuova creazione era altrettanto audace e rivoluzionaria, con un’efficacia destinata a sopravvivere lungamente alla società che l’aveva prodotta.

La tragedia non era un dramma rituale, pur conservando stretti legami con la religione, attraverso una integrale associazione con le feste e quindi, poiché i Greci erano sempre Greci, attraverso il carattere agonale della produzione poetica. La maggior parte delle tragedia faceva la prima apparizione alle Grandi Dionisie, o Dionisie Cittadine che si tenevano ad Atene all’inizio della primavera ed era la più bella delle quattro feste annuali ateniesi in onore di Dioniso. Il primo giorno era dedicato a una colorita processione cerimoniale – culminante nel sacrificio di un toro e nella deposizione solenne della statua del dio nel teatro – e quindi a un concorso di odi ditirambiche eseguite da dieci cori, cinque di uomini e cinque di giovanetti, ciascuno formato da cinquanta elementi e accompagnato da flauti. Nel secondo giorno si rappresentavano cinque c commedie. Poi veniva la competizione delle tragedie che durava tre giorni interi, ciascuno assegnato a uno dei drammaturghi concorrenti, il quale aveva scritto per l’occasione tre tragedie, ossia tre drammi in un atto – che potevano essere collegate tra loro formando una trilogia, ma il nesso poteva mancare e sembra che questo fosse il caso più frequente – e un quarto dramma di genere totalmente diverso, un grottesco dramma satiresco.

I partecipanti attivi a questi festeggiamenti ammontavano a non meno di mille uomini e fanciulli, che avevano già speso molto tempo nelle prove, e il teatro poteva contenere 14 mila spettatori seduti sulle gradinate all’aperto, da cui dominavano la pista per le danze, chiamata orchestra (un semplice spazio libero circolare) e, dietro di essa, il palcoscenico con il suo semplice fondale e le macchine di scena. I festeggiamenti si ripetevano ogni anno, anche durante la guerra del Peloponneso, e sempre con opere nuove. Nel corso del V secolo si introdusse presso parecchie feste rurali minori l’uso di mettere in scena opere già rappresentate alle Dionisie Cittadine, ma fino al 386 non accadde mai che una tragedia già rappresentata, venisse ripresa alla festa principale. Gli autori di tragedie, anno per anno scrivevano drammi nuovi nella speranza dell’unica rappresentazione durante le Dionisie Cittadine. E per molti drammaturghi questa speranza poteva risultare vana, data la regola di rappresentare solo un drammaturgo al giorno, per tre giorni di fila. Le Dionisie Cittadine rappresentavano una grande celebrazione comunale, superata per grandiosità solo dalle Grandi Panatenee, tenute ogni quattro anni in onore di Atena, la dea patrona della polis. Il più alto ufficiale dello Stato, l’arconte eponimo, eletto annualmente, presiedeva ai preparativi della festa, e i suoi doveri comprendevano la selezione dei drammaturghi che dovevano entrare in gara. Le spese di messa in scena, non trascurabili, in parte erano sostenute direttamente dal tesoro pubblico, in parte erano addossate ai cittadini delle classi più ricche, esattamente come si faceva per il comando e per parte del finanziamento delle navi da guerra. Il concorso era deciso da una giuria di cinque membri, scelti in maniera abbastanza complicata passando dall’inevitabile sorteggio.

Aristotele nella Poetica dice che dei sei elementi costitutivi della tragedia, il più importante è la combinazione dei fatti. Perché la tragedia è una imitazione (mimesis) non di uomini ma di azione. Nella sua analisi egli sottolinea la necessità di prendere ogni dramma nel suo insieme, essendo l’insieme più grande delle sue parti, l’azione più grande della musica, della poesia e delle caratterizzazioni individuali, per quanto essenziale possa risultare ciascuno di questi elementi. Solo se si vede o si legge una tragedia in una seduta continua, se ne può apprezzare l’effetto giusto: la tensione incessante, il tono elevato e il linguaggio poetico, i lunghi discorsi (complicati) e le odi, piene di allusioni e e oscurità oracolari, la totale concentrazione sui problemi dell’esistenza umana, della condotta dell’uomo e del suo destino sotto la potenza e l’autorità divina. Tutto ciò conferiva alla tragedia la sua più alta qualità religiosa, resa più concreta dai riferimenti diretti agli oracoli, alle profezie e agli dei; dll’uso del mito come fonte normale dei fatti stessi; dalle maschere e dai costumi e dalle danze cui i Greci erano abituati nei loro riti.

Fino al IV secolo inoltrato, le tragedie era rappresentate regolarmente solo ad Atene, e tutti idrammi erano evidentemente scritti per le gare ateniesi. C’erano drammaturghi non ateniesi, liberi di partecipare, che qualche volta riportarono pure il primo premio, ma non è conosciuto alcun autore non ateniese che abbia scritto una tragedia destinata alla propria città.

Le vite di Eschilo, Sofocle ed Euripide abbracciano tutto il V secolo. Complessivamente essi scrissero 300 drammi, dei quali solo 32 sono giunti fino a noi.
Degli altri 150 autori tragici, di cui si conoscono i nomi e che in qualche caso hanno goduto di considerevole fama, non ci è giunto neppure un dramma. C’è ragione di credere che il processo di selezione avvenuto attraverso i secoli abbia trasmesso fino a noi i testi migliori. Il teatro di Dioniso, che nel V secolo era ancora primitivo, nel IV fu trasformato in uno splendido anfiteatro di pietra, mentre ne sorgevano di simili a Delfi, Epidauro e in altre città dell’Ellade. Evidentemente l’Atene del V secolo offriva in qualche modo l’atmosfera in cui quest’arte poteva fiorire.

Le allusioni politiche non sono rare nei drammi, e alcuni di essi, come i Persiani di Eschilo, scritti meno di dieci anni dopo la battaglia di Salamina, abbandonavano il regno del mito per svolgersi in uno scenario contemporaneo. Le grandi Dionisie erano una celebrazione della comunità, la religione un affare della polis, e quando i drammaturghi toccavano argomenti politici, essi prospettavano le implicazioni morali e mai questioni di politica pratica, restando così le opinioni politiche private assolutamente inafferrabili.

Le condizioni della partecipazione dei drammaturghi all’agone imponevano limiti precisi nell’impiego degli attori e del coro, nella scelta dei temi, nella struttura dei drammi, nel lro linguaggio poetico e nel metro (struttura del verso). Eschilo introdusse un secondo attore; poi Sofocle ne aggiunse un terzo, e con ciò lo sviluppo di questa forma d’arte era concluso. La parte del coro fu gradualmente limitata, finchè Euripide in molti suoi drammi la ridusse a poco più di un interludio musicale.

Spesso si ha l’impressione che Euripide, se avesse potuto, avrebbe spezzato del tutto la cornice prestabilita della tragedia; non poteva farlo e rimase un tragediografo attico, ma anche lui, come i suoi predecessori, potè scandagliare con libertà i miti e le credenze tradizionali, nonché i problemi nuovi suscitati dalla società, come il nuovo razionalismo socratico, o l’umanità degli schiavi, o le responsabilità e la corruzione del potere. E ciò veniva rappresentato ad Atene, di fronte alle più vaste adunanze di uomini, donne e bambini, e perfino schiavi, che si fossero mai riunite. I posti d’onore in teatro erano tra i premi più alti che lo Stato potesse assegnare, ambitissimi dagli stranieri eminenti come dagli stessi Ateniesi.

Sembra impossibile stabilire quali fossero i sentimenti di tutti questi spettatori, molti dei quali assistevano regolarmente per tre giorni interi e consecutivi a drammi poetici spesso difficili e complessi.

Dopo la guerra del Peloponneso, pur restando a lungo una forma popolare d’arte, las tragedia diventò rapidamente un’arte secondaria, di derivazione, che viveva dell’opera degli antichi maestri più che di creazioni nuove e vitali.