1.8 La Commedia

Nel 1958 la pubblicazione di un papiro scritto nel III secolo d.C. ci ha fatto conoscere il testo del Dyscolos o Misantropo, una commedia tra le prime e le meno importanti del poeta ateniese Menandro, nato nel 342 o 341. Prima di allora, le commedie greche complete in nostro possesso erano undici, dell’altro e più grande ateniese Aristofane (nato intorno al 450). Come la tragedia, anche la commedia classica era un monopolio ateniese, e le rappresentazioni avvenivano, in concorso, alle feste dionisiache. Qualche forma di commedia probabilmente esisteva dappertutto nel mondo greco. Quella perfezionata dagli Ateniesi, esclusivamente ateniese, era la commedia poetica complessa, con pochi attori e con un coro. Nel V secolo, nella cosiddetta Commedia Antica, gli attori portavano costumi esagerati e grotteschi, eseguivano innumerevoli giochi chiassosi, erano sfrenati, turbolenti, osceni, e a momenti diventavano lirici e seri. Nessun greco riusciva a parlare per più minuti senza fare qualche riferimento agli dei e ai miti. E così faceva pure la commedia, ma raramente, nonostante lo sfondo della festa, essa aveva un tema religioso, fosse pure in chiave minore.

I poeti comici guardavano principalmente alla scena contemporanea in tutta la sua ricca varietà, con la sua vita politica, con i suoi costumi e le sue abitudini, le sue manie e le mode, le aspirazioni, i vizi, le idee nuove e le tradizioni sorpassate, i generali e i soldati, i contadini, i filosofi, gli efebi e gli schiavi. Liberi dalla pastoie canoniche della tragedia, gli scrittori comici impiegavano tutti gli espedienti stilistici immaginabili per riversare torrenti di ridicolo e d’ingiurie sulle persone e sulle idee, e spesso, neppure gli dei sfuggivano alla loro aggressività. Qualche volta o bersagli erano camuffati, ma non abbastanza, da ingannare uno spettatore appena informato, ma spesso erano chiamati con i loro nomi veri, come Socrate nelle Nuvole, o Euripide negli Acarnesi, nelle rane e nelle Tesmoforianti.

Noi possiamo giudicare la commedia antica solo attraverso Aristofane. Egli aveva uno spirito e una invettiva pronta, al pari della ferocia delle sue invettive, e possedeva una intelligenza penetrante. Era anche capace di raggiungere una poesia di grande bellezza e serietà. E sempre difficile dire quando uno scherzo è solo uno scherzo o una frecciata oltraggiosa, o fino a che punto i passi seri siano veramente seri, e quale sia la loro intenzione. Delle prime dieci commedie di Aristofane, tutte rappresentate durante la prima metà della guerra del Peloponneso, sette erano di argomento politico ed erano piene di stoccate dirette verso i capi popolari, a cominciare da Pericle, contro i tribunali popolari e contro la guerra stessa. Erano scherzi pesanti, molto di più di quanto si potrebbe tollerare nei moderni spettacoli di rivista. Tuttavia, non si può affermare che Aristofane fosse contro la democrazia ateniese e contro la guerra con Sparta; o che la sua rappresentazione dei demagoghi, del popolino urbano e dei tribunali popolari sia equilibrata ed esatta, o che pretenda di essere tale. Intanto si possono citare brani delle commedie rimaste che possono servire da prova sia in un senso che nell’altro; inoltre, durante la sua carriera, Aristofane riportò quattro volte il primo premio, tre volte il secondo e una volta il terzo. Questi successi rappresentano un primato, per la Commedia Antica, e fanno pensare che il pubblico, che non era certo nemico della democrazia e della guerra, non vedesse nel poeta un avversario politico dichiarato. Tuttavia, non è credibile che tutto si riducesse ad un sano divertimento, senza offese date o ricevute. Platone, faceva dire a Socrate, nella sua autodifesa in tribunale nel 399 (Apologia): “Gli accusatori che veramente temo sono coloro che spargono false voci sulla mia opera, dicendo, per esempio, che io ho la specialità di far apparire migliore l’argomento peggiore. Non posso controinterrogarli. Non conosco neppure i loro nomi, né posso dire chi sono, se non uno che è forse un poeta comico.” L’allusione ad Aristofane è esplicita e non si può nemmeno dimenticare la testimonianza di Platone sulla durevole efficacia delle Nuvole. Bisogna ammettere che nelle commedie di Aristofane è tutto fatto con tale intuito e senso critico che molti degli scherzi e delle scene sono ancora esilaranti a distanza di oltre 2000 anni. Forse niente più della Commedia Antica riflette certe qualità dell’Atene del V secolo, le sue ampie libertà, la sua fiducia in sé stessa, la sua vitalità ed esuberanza, la capacità del demos di ridere di sé stesso.

La fine della guerra del Peloponneso segnò anche la fine di questo tipo di commedia. La commedia del IV secolo fu, sin dall’inizio, come nelle ultime opere di Aristofane, più tranquilla nei toni, meno pungente ed aggressiva, generalmente meno immediata nei contenuti sociali e politici. La Commedia Nuova, con Menandro, abbandono del tutto gli affari correnti, le idee politiche correnti e le grandi questioni sociali. Diventò una commedia di costumi, rispettabile, moderata, meno oscena, limitata a personaggi fittizi e a monotoni intrecci convenzionali, cioè una commedia degli equivoci.

La commedia di Aristofane era concentrata intorno ai tentativi semiseri di un libero individuo, operante di propria iniziativa, che cerca di venire a capo di una grande crisi pubblica o di un malanno ritenuto grande, come la guerra del Peloponneso, come i perniciosi insegnamenti dei sofisti, la cattiva poesia di Euripide e il suo atteggiamento verso le donne. Al centro degli intrecci di Menandro, stanno gli stratagemmi, abili e di solito tortuosi, inventati per riscattare una ragazza da un mezzano o per unire due innamorati, affari privati in cui potevano impegnarsi solo gli schiavi e non i liberi. La Commedia Nuova era una forma appropriata per gli ultimi giorni dell’indipendenza ateniese, quando la polis lottava per sopravvivere, e ancor di più per l’Atene politicamente annientata del mezzo secolo che seguì Alessandro Magno. Essa conservò per lungo tempo la sua popolarità, superiore a quella della Commedia Antica, anche presso i Romani, fra i quali fu largamente conosciuta e amata negli adattamenti e nelle imitazioni latine di Plauto e di Terenzio (che vissero nei cento anni fra il 250 e il 150).