1.10 La Scienza

Alla fine del IV secolo, un Greco aveva già un vocabolario adeguato per designare un uomo come architetto, matematico, meteorologo, medico o botanico, ma non avrebbe potuto tradurre la parola moderna “scienziato” se non dicendo “filosofo” o “fisico”. Se conosceva Aristotele, egli avrebbe avuto una parola precisa per “scienza”, ossia episteme, e una concezione chiara di ciò che distingueva la scienza da altre forme di attività mentali. Uno scienziato non sa solo perché una cosa è così, cioè quanto è rivelato dall’esperienza, ma sa anche perché è così. Egli ha acquistato mediante la ragione “la conoscenza delle cause e dei primi principi (Metafisica,I,1). Questa è la sapienza, sophia, e quindi chi la possiede è un filosofo, uno che ama la sapienza. Il filosofo e lo scienziato erano identici negli interessi e negli obiettivi, il più delle volte anche nelle persone. Nel primo periodo questa identità personale era completa, ma con l’aumentare della conoscenza aumentarono gli specialisti e una certa divergenza di interessi. C’erano filosofi, come Socrate, che rifiutavano la scienza come una occupazione inferiore; dall’altra parte c’erano uomini di medicina o di astronomia che mostravano poco interesse per le implicazioni metafisiche ed epistemologiche dei loro studi, oppure per l’etica o per l’estetica. Ma tra loro non ci fu mai una vera rottura.

Alla fine del periodo arcaico, i Greci avevano accumulato una massa considerevole di conoscenze nel campo dell’agronomia, dell’anatomia e fisiologia umana, dell’ingegneria, della metallurgia, della mineralogia, dell’astronomia e della navigazione. Noi ignoriamo quasi tutto sul conto degli uomini che facevano le osservazioni e trasmettevano le informazioni, e anche sul modo in cui lavoravano, probabilmente perché essi erano artigiani che alla maniera antica imparavano e insegnavano per pratica, non leggendo e scrivendo. I risultati materiali, tuttavia, sono largamente attestati nella ceramica, nell’architettura, nella scultura, nell’assortimento e nella varietà dei prodotti alimentari, nello sviluppo della navigazione, e anche se molto era stato ereditato da civiltà precedenti, molto era certamente di creazione greca. Ma intervenne una cesura tra teoria e pratica, ossia, detto in termini moderni, una cesura fra scienza pura e applicata. La conoscenza era un bene, la sapienza il bene supremo, ma il suo scopo era di sapere, non di fare; di capire l’uomo e la natura per via contemplativa , piuttosto che soggiogare e trasformare la natura, conseguire una maggiore efficienza nell’uso dell’energia o aumentare la produzione.

La posizione estrema fu assunta da Platone. Per lui, tutto il mondo dell’esperienza, essendo transitorio, imperfetto, non poteva essere oggetto di vera conoscenza, la quale doveva essere rivolta alle Idee o Forme che erano eterne e reali. Egli quindi era fondamentalmente avverso ad ogni scienza che non fosse riducibile alla matematica e in particolare alla geometria. Plutarco riferisce che egli criticava quei matematici che si applicavano alla duplicazione del cubo costruendo modelli materiali, perché “così si perde e si distrugge il buono della geometria, in quanto essa viene riportata indietro alle cose dei sensi invece di essere diretta in alto e di mirare alle cose eterne e incorporee”. Lo stesso Platone scrive nella Repubblica di quelli che “stanno con il naso all’insù” per studiare i cieli: “Se vogliamo rivolgere l’intelligenza innata dell’anima al suo giusto impiego mediante un uso genuino dell’astronomia, procederemo come facciamo in geometria, per mezzo di problemi, e lasceremo da parte il cielo stellato”. E’ difficile però lo stesso Platone prendesse alla lettera questo ammonimento. Dei pitagorici possiamo poi affermare con certezza che essi non scoprirono i rapporti matematici tra le note musicali mediante la pura contemplazione o la rivelazione mistica.

Non molto prima della nascita di Platone era stata istituita nell’isola di Cos la scuola ippocratica di medicina, una organizzazione di ricerca che nel mezzo secolo dal 440 al 390 compì prodigi di osservazione matematica e di rigorosa analisi sperimentale, registrate in opere come le Epidemie o il piccolo trattato sul “morbo sacro” (l’epilessia). Nel secolo successivo, Aristotele e i suoi discepoli raggiunsero livelli anche forse superiori nei lavori di biologia, di petrologia e psicologia fisiologica. Astronomi e matematici continuarono a stare con il naso all’insù e a perfezionare tanto la loro matematica che i loro strumenti. Le loro conclusioni, riassunte e contenute in un libro a cui gli arabi più tardi dettero il nome di Almagesto di Claudio Tolomeo, un alessandrino del II secolo d.C., conservarono la loro decisiva autorità fino a quando le scoperte di Copernico e Galileo non ne fecero giustizia. Gli ingegneri militari, specialmente quelli che lavoravano sotto Filippo e di Alessandro e poi dei primi sovrani macedoni dell’Egitto, inventarono armi di assedio e altri meccanismi conducendo ricerche sistematiche sui materiali e sui processi fisici. Nella fisica sperimentale furono fatti notevoli progressi, sicchè Erone di Alessandria, nella sua Pneumatica, scritta probabilmente nel I secolo d.C., potè descrivere nove diversi congegni meccanici azionati dall’aria riscaldata o dal vapore.

La pratica ippocratica di auscultazione dei battiti del cuore, gli Elementi di Euclide, la scoperta della spinta di Archimede nei fluidi, il trattato sulle sezioni coniche scritto dal suo più giovane contemporaneo Apollonio di Perga, la valutazione del diametro della Terra, calcolato da Eratostene con un errore di poche centinaia di miglia, il calcolo della precessione degli equinozi dovuto a Ipparco, i giocattoli a vapore dovuti a Erone, tutte queste conquiste non furono eguagliate in Europa per altri 1500 anni.

La medicina antica non progredì e si conservò al livello raggiunto dagli ippocratici, come Galeno di Pergamo, l’ultima grande figura dell’antichità, il quale a distanza di cinque secoli non si trovava più avanti, mentre molte conoscenze pratiche e molti scritti erano stati dimenticati da tempo.

Si può concludere che l’astronomia, la fisica teorica e la matematica prosperarono molto più a lungo delle scienze applicate, e che tutte le scienze conobbero una stasi mentre il mondo antico aveva ancora molti secoli di vita di fronte a sé. Forse, dal punto di vista pratico, alcune idee veramente innovative superavano le capacità tecniche diffuse della società greca, e ciò può spiegare come mai Erone, con la sua conoscenza della pneumatica, non potesse fare di più che costruire giocattoli ingegnosi. E nessuno ebbe l’idea, molto più semplice, di trasferire il principio ben noto che faceva muovere le barche a vela ad altri usi essenziali, costruendo, ad esempio, un mulino a vento.

Tutto ciò emerge con la massima con la massima chiarezza nella scuola di Aristotele. Benché il suo debito verso Platone sia evidente in tutta la sua opera, Aristotele rifiutò le Forme del maestro a favore di un empirismo radicale. Ciò che si deve comprendere, secondo Aristotele, è il mondo dell’esperienza e da esso bisogna partire. Egli aveva un’energia e una curiosità intellettuale mai superate e alle quali pochi uomini del suo tempo si avvicinarono. Concentrò i suoi massimi sforzi sulla biologia, materia che occupa quasi un terzo del corpus aristotelico, e le sue ricerche furono continuate da Teofrasto che gli successe a capo del Liceo, come venne chiamata la scuola da lui fondata ad Atene nel 335 o subito dopo. Teofrasto fu seguito da Stratone i cui interessi erano rivolti piuttosto alla fisica che alla biologia.

Al tempo della morte di Stratone, intorno al 268, la scienza greca era arrivata alle soglie della modernità, in particolare nel crescente apprezzamento dello sperimentalismo. Ma sebbene la scienza greca indugiasse sulla soglia della modernità per circa tre secoli (nella Pneumatica di Erone ci sono citazioni dirette di Stratone), essa non la varcò e alla fine se ne allontanò completamente. Ciò che era mancato era uno spirito baconiano che avesse spinto regolarmente e costantemente dalla speculazione alla ricerca empirica, all’applicazione pratica. Aristotele e Teofrasto avevano una vasta conoscenza dell’alimentazione degli animali e della crescita delle piante, ma né loro né i loro elettori trassero le conclusioni che avrebbero portato all’allevamento selettivo nell’agricoltura e nella pastorizia. Il loro interesse era soddisfatto quando essi avevano capito lo scopo, la funzione, le finalità della natura.

Nella seconda metà del V secolo, Leucippo e Democrito aveva elaborato una teoria atomica della materia che più tardi fu adottata da Epicuro e che trovò nel lungo poema De Rerum Natura di Lucrezio, nel I secolo a.C., la sua più nota espressione scritta. Ma l’atomismo, benché discusso per secoli, non entrò mai nella scienza del mondo greco. La scienza e la filosofia greca erano “aristocratiche” nel senso che si svilupparono tra le classi agiate per le quali le sole occupazioni pratiche accettabili erano la guerra e l’arte del governo, la poesia e l’oratoria. Quando Aristotele si occupava di arti pratiche, egli lavorava e studiava alla sua maniera abituale, empirica, sistematica. Tuttavia esse appartenevano ad un ordine inferiore di studi, perché una techne non poteva essere una scienza, una episteme. Una techne era una qualità razionale diretta al fare pratico, posseduta magari da uomini anche famosi come Fidia scultore, o da Policleto statuario. Resta il fatto che la tecnologia greca fondamentale fu fissata all’inizio del periodo arcaico, così nell’agricoltura come nella manifattura, e in seguito ci furono pochi mutamenti di rilievo. L’elenco delle invenzioni scientifiche greche è molto breve. Evidentemente la società nel suo insieme mancava della mentalità e degli impulsi necessari per tentare sistematicamente di raggiungere una maggiore efficienza e produttività. In effetti, il problema centrale della storia dell’umanità, quello dell’energia da impiegare nella manifattura e nelle costruzioni civili e militari, problema che se risolto scientificamente avrebbe potuto dare un grande impulso allo sviluppo tecnologico ed economico del mondo antico, in effetti non fu mai avvertito, a causa dell’impiego massiccio della forza-lavoro degli schiavi. Neppure un uomo pratico come Vitruvio, che non era un filosofo ma un ingegnere ed architetto (da qualcuno viene dato al seguito di Cesare nella conquista della Gallia), rivela la minima consapevolezza della possibilità del progresso tecnologico. Nel suo De Architectura, scritto in latino probabilmente subito all’inizio dell’era cristiana, più o meno al tempo di Erone, riassume le più avanzate conoscenze tecniche greche così come esse si erano tramandate attraverso i secoli nei testi scritti e nella pratica.