1.2 Atene

Allo scoppio della guerra del Peloponneso nel 431, solo un terzo dei cittadini ateniesi vivevano nell’area urbana. I non-cittadini liberi, esclusi per legge dalla proprietà terriera, erano concentrati nella città e nel porto, come pure gran parte degli schiavi. La conseguenza era che tanto Atene che il Pireo avevano una popolazione più numerosa di quella complessiva della maggior parte degli stati greci. Il carattere urbano della vita greca era una condizione necessaria per la potenza militare. La popolazione urbana comprendeva un cospicuo numero di persone i cui interessi economici restavano legati alla campagna. Alla fine del V secolo tre quarti delle famiglie dei cittadini possedevano qualche appezzamento di terreno, non sempre sufficiente per vivere. Quanto agli agricoltori veri e propri, essi furono riuniti entro le mura, nell’estate del 431, in previsione della prima incursione spartana. Nella città vivevano famiglie di ragguardevole ricchezza: cittadini che vivevano del reddito dei loro possedimenti e in qualche caso degli investimenti fatti in schiavi, e non-cittadini la cui base economica era il commercio, la manifattura o i prestiti. Secondo Aristotele (Costituzione di Atene), Nicia, il comandante dell’esercito ateniese distrutto in Sicilia, possedeva 1000 schiavi; un altro ancora, di cui non è dato il nome, elencò in tribunale i contributi personali che aveva dato per la flotta e per le spese delle feste pubbliche negli ultimi sette anni della guerra del Peloponneso, arrivando a un totale di undici talenti, che equivalevano al salario annuale di oltre 200 lavoratori qualificati. Costoro vivevano essenzialmente di rendita, liberi di dedicarsi alla politica, allo studio o semplicemente all’ozio. Ciò valeva per Nicia come per i grandi proprietari terrieri inurbati. Nicia, in particolare, non impiegava direttamente i suoi schiavi ma li affittava a giornata a imprenditori che avevano concessioni nelle miniere d’argento del Laurio. Anche quelli che, come Cleone, che impiegavano i propri schiavi nei propri stabilimenti industriali, erano liberi da occupazioni economiche, se volevano, perché demandavano la cura dei propri affari, come i grandi proprietari terrieri, alla cura di amministratori e fattori. Il numero degli schiavi ad Atene è incerto, in mancanza di censimenti periodici. La cifra congetturale di 60-80 mila è probabilmente vicina al vero. L’impiego degli schiavi era massimamente concentrato nelle miniere e nel servizio domestico in cui erano impiegati migliaia di uomini e donne. Platone, per esempio, parla di cinque domestici al suo servizio, Aristotele ne menziona più di quattordici, Teofrasto sette. L’impiego economico degli schiavi era dunque fondamentale nell’agricoltura e nella manifattura, perché essi liberavano da ogni preoccupazione economica, e anche da qualsiasi attività economica, gli uomini che si dedicavano alla direzione politica dello stato e, in larga misura, anche la direzione intellettuale.

La grande maggioranza degli ateniesi, proprietari di uno schiavo o due, o privi di schiavi, era largamente occupata a procurarsi da vivere, e molti non si elevavano mai al di sopra di un livello minimo. Nel periodo classico, tuttavia, ad Atene anche i poveri trovavano il tempo di partecipare alla vita pubblica della comunità, sia nel governo (in senso lato) che nelle solennità associate ai culti dello stato.

Una parte centrale della storia ateniese riguarda la distribuzione dei gravami e degli obblighi militari. Nel 431, all’inizio della guerra del Peloponneso, Tucidide narra della grande invasione dimostrativa che Pericle condusse nei territori di Megara, con 13 mila opliti, 10 mila dei quali erano cittadini e gli altri meteci. A quella data, il numero totale dei cittadini maschi adulti era di 40-45 mila; dunque circa un terzo dei cittadini, escludendo i meteci, avevano mezzi sufficienti per essere inclusi tra gli opliti. Ogni cittadino o meteco era soggetto al servizio militare e il numero dei chiamati era stabilito dall’assemblea. Il più delle volte erano richiamati solo gli opliti e la cavalleria, di cui facevano parte i settori più agiati della polis.  Essi erano tenuti a provvedere e conservare il proprio equipaggiamento, ricevendo dallo stato solo una indennità giornaliera durante il servizio. Sebbene all’occasione venissero richiamati anche i reparti armati “alla leggera”, ad Atene, l’esercito coscritto e non professionale nel senso moderno, era una istituzione riservata alle classi superiori e medie.

La flotta aveva una diversa organizzazione . Il comando delle navi era distribuito tra i cittadini più ricchi che provvedevano in proprio ad una parte considerevole dei costi operativi, mentre gli equipaggi erano costituiti da professionisti pagati. Sembra probabile che circa 12 mila uomini fossero ingaggiati per otto mesi dell’anno. Nella flotta i cittadini erano abbastanza numerosi. Per i poveri della città la flotta era una fonte importantissima di sostentamento, almeno fino a quando durò l’impero ateniese. Un cronista del tempo, meglio conosciuto come Vecchio Oligarca, scriveva che è’ il demos che guida le navi e dà allo stato la sua forza.

La parola demos ha una storia complicata. Il Vecchio Oligarca la usa nel senso di “popolo minuto”, di classi inferiori, con le sfumature peggiorative proprie di chi ha idee di destra, fin dai tempi dell’Iliade. Ma demos significava anche “popolo nel suo insieme”; in una democrazia, il corpo del cittadini che operavano mediante la loro assemblea. Quindi i decreti dell’assemblea ateniese, nel linguaggio ufficiale dei documenti, erano approvati dal demos piuttosto che dall’ ecclesia (che è il termine greco per indicare l’assemblea). All’assemblea poteva intervenire ogni cittadino maschio che avesse compiuto 18 anni, e prendere la parola quando voleva. Erano esclusi coloro che avevano perduto i diritti civili per un reato. Ovviamente partecipava all’assemblea solo una frazione dei 40 mila cittadini, ma i partecipanti costituivano il demos  e i loro atti erano riconosciuti come emanati da tutto il popolo. Per estensione di questo principio, si riteneva che le giurie popolari, scelte a sorte da una lista di 6 mila uomini, volontari tratti dall’insieme dei cittadini, fossero uguali all’intero demos nelle questioni che rientravano nella loro competenza.

La partecipazione diretta era la chiave della democrazia ateniese: non c’era né rappresentanza, né un servizio civile, né una burocrazia in senso proprio. Nell’Assemblea, la cui autorità era totale, ogni cittadino non solo poteva partecipare quando voleva, ma aveva anche il diritto di entrare nel dibattito, di proporre emendamenti e di votare sulle proposte, sulla guerra e sulla pace, sulle tasse, sul regolamento del culto, sui reclutamenti, sulla finanza di guerra, le opere pubbliche, i trattati e i negoziati diplomatici, e ogni altro argomento, grande o piccolo che fosse, che richiedeva una decisione di governo. Molto del lavoro preparatorio per queste assemblee era fatto dalla boulè, un consiglio di 500 cittadini sorteggiati per durare in carica un anno. Ognuno aveva il diritto di farne parte, se sorteggiato, ma poteva ripetere la propria partecipazione solo per due volte al massimo. C’era poi un gran numero di ufficiali di varia importanza, la maggior parte dei quali era pure designato a sorte per un anno: le poche eccezioni riguardavano i dieci generali (strategoi) che erano eletti e potevano essere rieletti senza limitazioni, e commissioni temporanee ad hoc per negoziati diplomatici e occasione analoghe. Ogni ufficiale, per importante o insignificante che fosse il suo posto, era responsabile direttamente e unicamente verso il demos stesso, nel consiglio o in assemblea o nei tribunali, e non a un funzionario superiore. Qualche volta gli ateniesi chiamavano Solone padre della loro democrazia. Ma era solo il frutto di un mito: benchè Solone quanto Pisistrato, in modi diversi, avessero gettato le basi, indebolendo il sistema arcaico e il monopolio politico delle famiglie aristocratiche, nessuno dei due aveva mai avuto in mente la democrazia. Il mutamento, quando venne, fu netto e immediato, dopo il rovesciamento della tirannide nel 510, con l’aiuto spartano, e i due anni di guerra civile che seguirono. L’architetto del nuovo tipo di governo, quello democratico, fu Clistene. Egli, appartenente alla nobile famiglia degli Alcmeonidi, divenne un democratico per caso, rivolgendosi al popolo minuto quando ebbe bisogno urgente del suo appoggio nella lotta confusa che si combatteva dopo la deposizione del tiranno Ippia, figlio di Pisistrato. Clistene si era proposto di introdurre innovazioni di larga portata, creando istituzioni che egli giudicava necessarie in vista del suo nuovo obiettivo, conservando quel che si poteva ma senza esitare a demolire e a inventare audacemente. La struttura di governo di Clistene non era ancora quella di Pericle: occorsero due generazioni per perfezionare il sistema, un periodo in cui si svolsero le guerre persiane e l’edificazione dell’impero, ma anche molti conflitti interni, perché nel 508 le forze opposte alla democrazia erano state tutt’altro che annientate.

Il meccanismo centrale della democrazia ateniese era l’elezione mediante sorteggio, che consentiva per tutti l’eguaglianza delle possibilità; inoltre, era prevista una paga per chi ricopriva un ufficio pubblico per permettere ai poveri di sedere nel consiglio e nei tribunali quando erano designati dalla sorte. Tucidide riferisce che Pericle affermava con vanto che una delle peculiarità positive di Atene era che la povertà non escludeva dal servizio pubblico. Se si sommano l’assemblea, il consiglio, i tribunali e i numerosi uffici assegnati a rotazione, il totale, di parecchie migliaia di cittadini, indica che la partecipazione diretta all’opera di governo era largamente distribuita tra la cittadinanza, che c’era un livello elevato di esperienza politica ripartita tra tutte le classi. Bisogna tuttavia osservare che il “dilettantismo” era implicito nella definizione ateniese della democrazia diretta. Ogni cittadino era tenuto ad avere la qualificazione necessaria per partecipare al governo, per il solo fatto di appartenere alla cittadinanza, e le sue probabilità di svolgere un ruolo pubblico erano molto accresciute non solo dal largo uso del sorteggio, ma anche dalla rotazione obbligata nel consiglio e nella maggior parte delle cariche.  Benché la paga fosse sufficiente per compensare il salario perduto da un artigiano o da di un operaio, essa non superava questo livello e quindi nessuno poteva contare sulle cariche pubbliche come fonte regolare di guadagno né come fonte temporanea di un miglioramento economico. Allo stesso tempo uno stato grande come Atene, con il suo impero e con i suoi affari fiscali, navali e diplomatici complessi, esigeva uomini politici che dedicassero tutta la loro attività a guidare e coordinare l’opera del “dilettanti” più o meno temporanei. E li trovava tra i componenti della classe agiata che erano liberi di dedicarsi completamente agli affari pubblici. Diventò sempre più diffuso definire questi uomini “oratori”, termine tecnico che non indicava particolari abilità nell’arte della parola.

Comunque, la direzione dello stato era dell’assemblea dei cittadini che faceva la politica e teneva il controllo, insieme con i tribunali, non soltanto sugli affari di stato ma anche su tutti i funzionari civili e militari. Essa si riuniva all’aperto, su un colle vicino all’acropoli, chiamato la Pnice, dove migliaia di cittadini si radunavano per discutere e decidere. Cioè, l’assemblea era un comizio di massa, per parlare al quale era necessario avere la potenza dell’oratoria. Non avendo composizione fissa, poiché i partecipanti non era scelti, l’assemblea non aveva né partiti politici né “governo” né alcun altro principio di organizzazione. Il presidente del giorno veniva scelto per sorteggio tra i membri del consiglio, secondo lo schema usuale della rotazione, si presentavano le mozioni, si discuteva, si emendava, si votava, tutto in una sola seduta, tranne che in rare circostanze. Chi desiderava guidare l’assemblea nella sua azione politica doveva presentarsi sulla Pnice ed esporre le sue ragioni. Un cittadino era un leader in quanto, e solo in quanto l’assemblea accettava il suo programma preferendolo a quello dei suoi avversari.

Critici antichi, con i loro seguaci moderni, non risparmiavano critiche a questo sistema , poiché, essi dicono, dopo Pericle il nuovo tipo di leader era un demagogo che adescava il demos nell’assemblea e nei tribunali,  a spese degli interessi superiori dello stato. D’altra parte è attestato che gli atti e le operazioni dell’assemblea restarono degni di rispetto fino alla fine. Nonostante tutta la loro esperienza politica, i cittadini in maggioranza, non erano in grado di venire a capo delle complicazioni della finanza o degli affari esteri e tendevano, con giuste ragioni, ad appoggiare quegli uomini dediti completamente alla politica in cui riponevano fiducia e che potevano in ogni caso controllare. Quindi, non solo Pericle nel V secolo e Demostene nel IV secolo avanzato ebbero la possibilità di sviluppare linee politiche a lungo termine, ma nel periodo intermedio ci furono altri uomini meno famosi, benché tutt’altro che privi di talento politico, come Trasibulo e Tubulo. Per i leaders non c’era immunità dai rischi: anche Pericle subì un declino temporaneo e una dura ammenda all’inizio della guerra del Peloponneso. Altri erano colpiti dall’ostracismo, cioè inviati in una specie di esilio onorario per dieci anni, ma senza perdere i beni e senza disgrazia sociale. Quando l’ostracismo fu lasciato cadere, verso la fine del V secolo, resto la possibilità dell’esilio ordinario per imputazioni criminali. E pochissimi erano mandati a morte, o legalmente, o per assassinio.

Ad Atene non si parlò più di oligarchia fino a quando un altro invasore, Filippo il Macedone, nel 322, chiuse definitivamente questo capitolo della storia greca.

Alla metà del V secolo,  gli oligarchici (i pochi) e i democratici (i molti), tra i cittadini ateniesi, avevano stabilito un equilibrio soddisfacente che si dimostrerà a prova di stasis (sedizione). Per “i molti” lo stato provvedeva notevoli benefici materiali e una considerevole partecipazione al governo, mentre per “i pochi”, che erano comunque una classe numerosa, vi erano gli onori e le soddisfazioni che andavano unite alla direzione politica e militare. Nel IV secolo Atene trovò in se stessa le risorse per conservare l’organizzazione politica e civica che l’impero aveva aiutato a instaurare nel secolo precedente.

Atene prosperò come nessun altro stato della Grecia classica. Il maggiore dei suoi vanti, attribuito a Pericle, era di essere la “scuola dell’Ellade”. In due secoli produsse una schiera di eccelsi scrittori e artisti, scienziati e filosofi. Nessuno era più severo di Platone, ateniese per nascita, che trovava molto da ammirare in Sparta, lo stato che era considerato l’opposto ideale di Atene. Platone però dimenticava che a Sparta non avrebbe potuto nemmeno cominciare a pensare, e tanto meno avrebbe avuto la libertà di insegnare liberamente come faceva ad Atene.