1.11 Filosofia e Politica

Il trionfo della filosofia sulla scienza e il concentrarsi del pensiero postalessandrino sulla vita interiore dell’uomo, rappresentavano la vittoria finale di Socrate e Platone. Nella seconda metà del V secolo avvenne nella filosofia greca una rivoluzione che si identificava così completamente con un solo uomo, Socrate, che i suoi predecessori sono noti collettivamente come i “presocratici”. Sarebbe sbagliato credere che i filosofi precedenti avessero ignorato del tutto l’uomo, concentrandosi sulla natura e sul cosmo, così come si avrebbe torto a trascurare il contributo dei contemporanei di Socrate, i tanto maltrattati sofisti. Tuttavia, Socrate fu l’elemento catalizzatore del mutamento che collocò l’uomo al centro dell’indagine filosofica. “Conosci te stesso” (γνότι σεαυτόν) aveva detto l’oracolo delfico, e Socrate fece sua quella massima, elaborandola in numerose idee germinali: che l’uomo è capace di conoscere sé stesso mediante un rigoroso pensiero razionale, mediante il metodo dialettico di analisi che mette a confronto ipotesi o spiegazioni alternative; che la vera conoscenza non può essere insegnata ma deve essere appresa per sé stessi e in sé stessi. Platone fa dire a Socrate nell’Apologia : “Io non sono mai stato maestro di nessuno”. La conoscenza umana di sé stesso, della propria natura, è il vero fine della conoscenza e quindi della vita. Ancora Platone fa dire a Socrate nell’Apologia: “Una vita non investigata non vale la pena di essere vissuta”. L’assunto finale è che gli uomini fanno del male solo per ignoranza e l’equazione finale è questa: conoscenza (sapienza) = virtù = felicità.

Tutti i tentativi di approfondire il contenuto di questi principi generali falliscono perché Socrate divenne una figura leggendaria entro una generazione. Ma il Socrate che conta non è l’uomo che fu maestro di Platone bensì il Socrate che è il protagonista di tanti dialoghi platonici. Quali che fossero le convinzioni del Socrate reale –e c’è da ragione di credere che egli riuscisse meglio a distruggere le convinzioni e gli argomenti degli altri che a costruire un proprio sistema- sono i problemi e le formulazioni del Socrate platonico che hanno dato la loro impronta a tanta parte della filosofia occidentale.

Questo Socrate credeva che l’anima dell’uomo fosse la sede della sua facoltà razionale, il fattore essenziale che distingue l’uomo dalle bestie. Ma l’anima contiene anche un elemento irrazionale, e il grande problema per l’uomo è di diventare veramente umano, ossia di permettere all’elemento razionale di dominare e controllare l’elemento irrazionale. Nulla di tutto ciò ha senso in condizioni di isolamento dell’uomo. La sapienza e la bontà sono veramente possibili solo dove c’è una relazione, da una parte tra uomo e uomo, e dall’altra tra uomo e l’eterno. Quindi tra gli argomenti importanti dei dialoghi socratici ci sono l’amore, l’amicizia, la religiosità, l’immortalità, ma sopra tutti la giustizia. L’indagine sulla giustizia conduceva ad analizzare e criticare le idee e le pratiche prevalenti della condotta politica. Questo passo era indispensabile nella città-stato greca, con la sua profonda coscienza comunitaria. Si riteneva che la polis fosse la forma più alta di associazione umana –“l’uomo è per natura un essere fatto per la polis”, disse più tardi Aristotele- e quindi la giustizia poteva essere attuata solo nella polis.

Al tempo di Socrate i Greci avevano avuto lunghe e complicate esperienze politiche, e non dovevano aspettare lui per avviare una discussione sui meriti e sui difetti dei vari sistemi politici. Democrazia o oligarchia, paga per i pubblici uffici o qualificazioni censuarie, indipendenza locale o impero: tali questioni erano discusse continuamente, anche se noi conosciamo poco gli argomenti perché il dibattito si svolgeva a voce più che per iscritto. Soltanto brevi passi in scrittori come Solone, Erodoto e i tragici ci offrono qualche indizio, oltre che la legislazione effettiva e la storia delle istituzioni politiche. La novità introdotta da Socrate non era né la discussione politica come tale, né l’idea che politica e giustizia fossero collegate, ma il modo radicale e sistematico di esaminare le questioni e la continua insistenza sul punto che la politica, e ogni tipo di condotta, deve essere guidata dalla ragione e giudicata secondo norme etiche assolute.

Un principio fondamentale per Platone, e per la corrente principale della filosofia greca posteriore, era che gli uomini sono creati disuguali; non solo nel senso superficiale di una disuguaglianza fisica, economica o sociale, ma disuguali nell’anima, in senso morale. Alcuni uomini sono potenzialmente capaci di una condotta completamente razionale, e quindi di un giudizio morale corretto; i più non ne sono capaci. Il governo, pertanto, dovrebbe essere affidato alle mani dei pochi moralmente superiori: idealmente, ai veri filosofi. E la loro autorità dovrebbe essere totale, nella sua portata e nei suoi fini. Questa teoria ha la le sue radici nella metafisica di Platone, nella sua convinzione che vi siano beni assoluti e verità assolute, accessibili per alcuni mediante una corretta educazione. Questi temi ricorrono spesso in Platone, ma sono elaborati a fondo solo nella Repubblica. Questo è di gran lunga il più esteso dei dialoghi socratici, perché la ricerca di una definizione della giustizia trascina Platone in una analisi originale delle componenti dell’anima, quindi della teoria pedagogica e della psicologia della poesia e della musica, della natura delle associazioni umane in generale e dello stato in particolare, della legge e della legislazione, della matematica e della dialettica, con commenti sulla proprietà, sulla condizione delle donne, la religione e l’immortalità; insomma egli affrontò qui la maggior parte dei problemi che per lui erano compresi nell’orizzonte del filosofo.

La Repubblica di Platone non vuole essere un programma pratico: vuole offrire un insieme di norme infallibili alle quali l’uomo buono deve guardare e mediante le quali devono essere messi alla prova gli ordinamenti sociali e politici esistenti. Per ogni azione e istituzione sociale c’è un criterio di giudizio fondamentale: rende gli uomini migliori di com’erano prima o no?

In un altro dialogo, il Gorgia,  Platone afferma che neppure i grandi Ateniesi del passato –Milziade, Temistocle, Cimone e Pericle- erano veri uomini di stato. Essi erano stati soltanto più munifici dei loro successori nel soddisfare i desideri del demos per mezzo di navi, mura e arsenali. Ma avevano mancato di rendere migliori i cittadini di Atene e quindi non era giusto chiamarli “statisti”. Per Platone, nessuna forma di polis era quella ideale, ma le più distanti da quest’ultima erano indiscutibilmente la tirannide e la democrazia estrema come si praticava ad Atene, dove la sovranità era affidata al demos, immeritevole e non qualificato, le cui richieste e le cui decisioni erano rese ancora peggiori dalla mancanza di un adeguato sistema d’istruzione. Pur apprezzando tutta la nobiltà della concezione platonica dello Stato, non si può negare che gli esiti di una tale concezione avrebbero portato verso una società chiusa e autoritaria. Fu Aristotele che nel secondo libro della Politica, liquida senza troppe cerimonie sia la Repubblica che le Leggi, l’altra opera di Platone pensata come un codice voluminoso in cui non c’è un particolare della vita di ogni cittadino, straniero o schiavo che sfugga alla regolamentazione, con le pene accuratamente dosate per ogni genere di violazione. La Politica di Aristotele è fondata su un’analisi sottile delle istituzioni politiche esistenti; il materiale era stato raccolto da lui e dai suoi discepoli in brevi monografie delle quali ci è giunta solo quella su Atene. L’analisi non è naturalmente solo descrittiva: classifica, raccomanda e giudica, ma sempre avendo in mente ciò che è possibile e ciò che è desiderabile. Formare un solo gruppo di governanti stabili, egli sostiene, è un invito alla stasis.

Aristotele e la polis scomparvero quasi contemporaneamente. Quando il suo contemporaneo Diogene diceva “io sono un cosmopolites” (cittadino dell’universo), egli proclamava che la cittadinanza era diventata un concetto privo di senso. I discepoli cinici di Diogene affermavano la loro discendenza intellettuale da Socrate, e così pure gli stoici, che diventarono la scuola filosofica più importante dell’ellenismo.

In questo nuovo mondo restarono vitali la logica e la fisica di Aristotele, ma non la sua politica e neppure la sua etica, proprio perché esse erano concepite come “arti pratiche” nel quadro della polis.  Invece Platone, paradossalmente, fu riscattato essendo depoliticizzato. Il suo rifiuto del mondo dell’esperienza in vista delle Forme eterne, il suo misticismo, il suo interesse per l’anima, erano quanto mai convenienti per filosofie che, data la natura degli stati e della società ellenistici, si rivolgevano per necessità sull’uomo stesso, e più tardi, per una nuova concezione religiosa che si accentrava sulla salvezza. Il motto era sempre “conosci te stesso” ma con implicazioni che avrebbero stupito Socrate.