1.1 La città-stato nel mondo classico
La parola greca polis, da cui derivano parole come politico, nel senso classico significava “uno stato che si autogoverna”. La polis più grande, Atene, aveva una superficie di circa 1700 kmq. Chiamarla città-stato significava attribuirle una definizione impropria per due ragioni: essa trascura la popolazione rurale, che formava la maggior parte della cittadinanza, e fa pensare che la città governasse la campagna, ciò che è inesatto. Atene, per la misura e la qualità della sua urbanizzazione, stava ad un estremo della scala dimensionale delle città greche, insieme ad un numero relativamente piccolo di altri stati. All’altro estremo si trovavano altri stati che non erano affatto città, sebbene possedessero tutti i loro centri civici. Quando Sparta, per esempio, nel 385 sconfisse Mantinea, che allora era la polis dirigente in Arcadia, impose che la città fosse rasa al suolo e che la popolazione tornasse ai villaggi donde un tempo era venuta. Dal racconto di Senofonte appare chiaro che il rammarico causato da questa imposizione, era solo politico e psicologico. Gli abitanti della città di Mantinea, erano proprietari di grandi estensioni di terreno, e preferivano vivere riuniti nel centro, lontano dai loro possedimenti, secondo uno stile che si può rintracciare già nei poemi omerici e che non aveva a che fare più di tanto con la vita cittadina. Le cifre relative alle dimensioni delle città greche sono tutte congetturali poiché non disponiamo di indicazioni esatte.
Quando la popolazione ateniese toccò il suo massimo, allo scoppio della guerra del Peloponneso nel 431, il totale, comprendente uomini, donne e bambini, liberi e schiavi, era di 250 mila o di 275 mila abitanti. Nessuna altra polis greca si avvicinò mai a questa cifra fino al periodo romano, quando le condizioni cambiarono completamente. Corinto poteva contare 90 mila abitanti, Tebe, Argo, Corcira e Agrigento dai 40 ai 60 mila ciascuna, e le altre città seguivano a distanza, molte con 5 mila abitanti e anche meno.
Tucidide racconta che la pirateria per terra e per mare era un’occupazione onorevole tra i Greci come tra i barbari. La parola polis non distingueva la struttura di governo; non implicava alcunché, non più che la parola stato, in merito alla democrazia, all’oligarchia o anche alla tirannide. Nella più larga accezione del termine, si identificava la polis con qualsiasi comunità greca indipendente, o che avesse perso temporaneamente la sua indipendenza. La polis non era un luogo geografico, benché occupasse un territorio definito: era una popolazione operante di comune accordo, e perciò doveva essere in grado di riunirsi in assemblea e di trattare in comune i suoi problemi. Questa era una condizione necessaria, anche se non l’unica, dell’autogoverno. L’autosufficienza era un’altra condizione che poteva consentire la vera indipendenza. Comunque, la polis non doveva essere così piccola da mancare del potenziale umano necessario per mandare avanti le varie attività di un’esistenza civile, comprese le esigenze della difesa. Se le dimensioni demografiche erano adeguate, esisteva pur tuttavia il problema della condivisione delle regole di condotta e della organizzazione della vita sociale. La risposta ateniese e la risposta spartana a questi problemi erano radicalmente diverse. All’interno di Atene, per esempio, non tutti accettavano la condivisione di queste regole di convivenza e di qui il lungo e complicato dibattito politico che vi si svolgeva. Queso dibattito avveniva in una piccola cerchia chiusa in seno alla popolazione totale, perché la polis era una comunità esclusiva. Alla metà del V secolo, gli ateniesi adottarono una legge che restringeva la cittadinanza ai figli legittimi di genitori entrambi di discendenza cittadina. C’era stato un tempo in cui in cui gli aristocratici greci combinavano i matrimoni per i loro figli spesso al di fuori della comunità, talvolta anche con i barbari, sebbene solo con i capi. Sotto il governo di Pericle, Atene dichiarò illegali questi matrimoni e bastardi i loro figli.
La parola “cittadino” non rende, almeno ai nostri giorni, tutto il valore implicito dell’appartenenza alla comunità della polis. E per chi non era nato nella comunità, era quasi impossibile entrarvi a pieno titolo. Un estraneo poteva diventare cittadino di Atene solo mediante un atto formale dell’assemblea sovrana, e le testimonianze storiche indicano che erano necessarie considerazioni molto speciali prima che l’assemblea potesse essere persuasa. Per esempio, non bastava essere nato ad Atene, servire nel suo esercito e comportarsi convenientemente e lealmente, se non si era figli di cittadini. Spalancare le porte agli stranieri era segno di un qualche difetto, e non è solo una coincidenza il fatto che dalla fine del IV secolo alcune città-stato furono costrette a vendere la cittadinanza per aumentare le entrate, e ciò accadeva proprio nel periodo in cui la polis classica era un organismo ormai declinante.
Specialmente nelle città-stato più urbanizzate e più cosmopolitiche, la comunità vera e propria era costituita da una minoranza. La maggioranza includeva in non-cittadini, tra i quali i residenti stabili ad Atene e in alcune altre città erano chiamati “meteci”, gli schiavi, che formavano una classe anche più numerosa, e, in linea di principio, tutte le donne. Quali che fossero i loro diritti, e ciò era rimesso interamente al potere dello stato, essi subivano varie restrizioni, rispetto ai cittadini, e allo stesso tempo erano completamente soggetti all’autorità dello stato in cui risiedevano. La polis era la fonte di tutti i diritti e di tutti gli obblighi e la sua autorità pervadeva ogni sfera del comportamento umano. C’erano cose che però uno stato greco non faceva, come per esempio, provvedere all’istruzione superiore o controllare i tassi di interesse, ma il suo diritto era comunque fuori discussione, sebbene scegliesse di non farlo. Alla polis non si sfuggiva. Ma se la polis aveva una autorità così illimitata, in che senso i Greci si consideravano liberi? La risposta è contenuta in un epigramma: “La legge è re”. La libertà non era identificata con l’anarchia, ma con un’esistenza ordinata entro una comunità che fosse retta da un codice stabilito e condiviso da tutti. Il fatto che la comunità fosse l’unica fonte della legge, era una garanzia di libertà. Su questo punto tutti potevano essere d’accordo, ma tradurre il principio in pratica era un’altra questione; qui la Grecia classica urtava contro una difficoltà che è rimasta nella teoria politica senza trovare una soluzione sicura. Quanto era libera la comunità di modificare le sue leggi stabilite? Se le leggi potevano essere cambiate a piacere, ossia da qualunque fazione o gruppo che in qualunque momento occupasse una posizione di predominio nello stato, ciò non avrebbe portato all’anarchia, a scalzare proprio la stabilità e la sicurezza che erano implicite nella dottrina che proclamava che “la legge è re”? La risposta a questi quesiti dipendeva dai rispettivi protagonisti. Il VI secolo vide emergere in molte comunità il popolo minuto come forza politica, e contro la sua richiesta di una piena partecipazione al governo, fu opposta prontamente la difesa della santità della legge, di un codice che, pur riconoscendo il diritto di ogni cittadino ad un leale processo, magari ad una ristretta partecipazione al governo, o persino al sorteggio, e ad altri settori importanti dell’organizzazione sociale, tuttavia limitava ai nobili e ai ricchi gli alti uffici civili e militari e quindi la politica attiva. Eunomia, lo stato ben ordinato e retto dalla legge, un tempo era stato uno slogan rivoluzionario; ora indicava lo status quo, la conservazione. Il popolo rispondeva reclamando una condizione nuova, l’ isonomia, l’eguaglianza di diritti politici, e poiché il popolo aveva la maggioranza numerica, l’isonomia conduceva alla demokratia.
Nella polis il forte senso della comunità urtava contro la grande ineguaglianza che vi era tra i membri. La miseria era diffusa, il livello di vita materiale era basso, con una profonda divisione tra poveri e ricchi. Il cittadino sentiva di avere dei diritti verso la comunità e non soltanto obblighi. Se il regime di governo non lo soddisfaceva, egli era pronto a fare qualche cosa, a sbarazzarsene, se poteva. Per conseguenza, nella Grecia classica, la linea di divisione fra politica e sedizione (stasis) era sottile, e assai spesso la stasis si trasformava in guerra civile. Nella Politica Aristotele dice: “Generalmente parlando, gli uomini ricorrono alla stasis per desiderio di uguaglianza”. Nella polis greca, in particolare Atene e fino a un certo punto Sparta, le divisioni più serie erano provocate non tanto dalla politica quanto dalla questione di chi dovesse governare, se “i pochi” o “i molti”. E la questione era pure complicata da affari esterni, dalle guerre e da ambizioni imperialistiche. Nella guerra contro i Persiani di re Dario e poi del suo successore Serse, da parte greca solo Sparta disponeva di un esercito potente che però, per una concezione strategica sbagliata, fece una difesa dilatoria, benché al momento della prova, alle Termopili e più tardi a Platea, dimostrò grande ardimento. Fu poi Atene ad assestare i colpi decisivi a Maratona nel 490 e al largo di Salamina nel 480. Quest’ultima battaglia, combattuta sul mare, rappresentò una svolta importante: convinti da Temistocle, gli ateniesi aumentarono in fretta il numero di navi della flotta, abbandonarono la città all’arrivo dei Persiani, e lasciarono che fosse distrutta; poi, con i loro alleati, schiacciarono gli invasori persiani nella grande battaglia navale di Salamina. Da quel momento in poi, la potenza di Atene, e quindi tutta la storia della Grecia classica, dipese dal controllo del mare. Nel quarto di secolo che segui, il predominio ateniese fu il fattore più importante della vita politica greca, e Pericle emerse come la figura dominante della vita ateniese. Ma ben presto, come scrisse Tucidide, “L’aumento della potenza di Atene e l’allarme che essa ispirava a Sparta, resero la guerra inevitabile”. La guerra del Peloponneso, che durò, con alcune interruzioni, dal 431 al 404, si chiuse con la sconfitta totale di Atene e la dissoluzione del suo impero. Pericle era morto nel il secondo anno di guerra. Nel IV secolo il vuoto di potenza in Grecia divenne permanente, nonostante gli sforzi compiuti a turno da Sparta, Tebe e Atene per instaurare una qualche egemonia. La risposta finale venne però non da uno stato greco ma dalla Macedonia, con Filippo II e con suo figlio Alessandro.